La Civiltà Contadina ha sempre espresso svariate forme di creazione artistica, dal punto di vista sonoro e visivo. Pensiamo ai canti popolari della nostra tradizione, alle composizioni spontanee che scaturivano dalle menti e dal cuore dei musicisti tradizionali o alle opere teatrali spontanee (sacre e non) che venivano rappresentate nelle stalle. Tutto questo in uno stile alpino omogeneo e assolutamente caratteristico, che non prevedeva il superfluo e il vacuo, quanto piuttosto l’essenziale, il reale e il materiale, simboli di un’esistenza dura vissuta quotidianamente. Nel campo della musica popolare, il passato dei nostri antenati ci offre una visione esplicativa del loro mondo, legato principalmente agli eventi naturali e stagionali. Compaiono, già quarantamila anni fa, i primissimi strumenti musicali costruiti e utilizzati dall’uomo: flauti ricavati da ossa di animale, conchiglie, tronchi cavi, sonagli di semi e archi sonori. Molti di questi strumenti preistorici si sono tramandati per via orale, da padre in figlio, fino a rimanere in auge (come costruzione e uso) ai giorni nostri. Questa inchiesta è stata svolta in Canavese nel corso di circa quarant’anni di ricerche sul territorio in collaborazione con il Centro Etnologico Canavesano di Bajo Dora (C.E.C.) e illustrerà alcuni dei moltissimi usi che la Gente di campagna e montagna faceva delle scarse risorse materiali intorno a sé per costruire oggetti in grado di ottenere suoni. La “non-musica” e gli strumenti “effimeri” Cosa si intende per “non-musica” o anche “paramusica”? Nel Medio Evo, la musica “celeste” era principalmente musica sacra, eseguita con strumenti canonici quali l’arpa, la cetra, la fidula, la viella, mentre la musica popolare di allora o “infernale” non godeva di simili suoni, ma veniva eseguita spesso con strumenti di fortuna, quali tamburi, zufoli, cucchiai percossi, pentole e così via. Insomma, ciò simboleggiava per la società arcaica la lotta tra il Bene, la Luce (la musica canonica) e il Male, l’Oscurità (il frastuono). Ricordiamo l’esecuzione del “charivari” o “ciabra”, in uso ancor oggi nelle Langhe per evidenziare un matrimonio inconsueto (marcata differenza di età o stato sociale) o, anzichenò, un tradimento di uno dei coniugi: gruppi di giovani si riuniscono sulle colline antistanti l’abitazione della “vittima designata” e, con urla, canti sguaiati e suoni percussivi eseguiti con strumenti di fortuna (coperchi, bidoni, campanacci da mucca) beffano l’ignaro “colpevole” del fatto, producendo un fracasso fastidioso. Gli strumenti “effimeri”, invece, sono quegli strumenti musicali che hanno vita sonora per un tempo limitato: quindici giorni, un mese, una stagione. Sono costruiti soprattutto con materiali vegetali quali cortecce d’albero, gusci, semi o canne, possono essere trombe, zufoli o semplici percussioni. Generalmente, sono legati al rituale del risveglio della natura: dopo una stagione fredda e oscura come l’inverno, bisogna “svegliare” l’erba addormentata e far tornare la luce. Quando l’uomo è solo, ha paura, canta, fischia, fa rumore per scacciare gli spiriti cattivi. Così il suono e le vibrazioni scacciano i malvagi e nefasti spiriti invernali (un tempo, la stagione di gran lunga più difficile da superare a livello di sopravvivenza), dando il risveglio alla natura e permettendo il ritorno della luce e del verde nella nuova tornata primaverile. Vediamo ora alcuni di questi strumenti inconsueti usati in Canavese:
Corno di stambecco, di caprone o di mucca (Bequèt): sono tra gli strumenti più arcaici, si utilizzano i corni degli animali forandoli in punta e ottenendo così una sorta di tromba naturale. Con la pressione delle labbra e del fiato sul bocchino così ottenuto, si emettono suoni che servivano per segnalare il passaggio di mandrie, il pericolo di fuoco o di furto di bestiame o anche semplicemente usati da ragazzi all’aperto durante la “Settimana Santa”, nella quale le campane non possono suonare. Giravano per le vie del paese suonando corni, conchiglie e raganelle, chiedendo in questua un salame, delle uova o semplici caramelle e biscotti. Alla fine, il tutto si risolveva con una “merenda sinòira” collettiva in piazza.
Conchiglie sonore (Sonaj-e, Lumasse): erano conchiglie della specie “Charonia Tritonis”, presenti nel maggior parte del Mar Mediterraneo. Venivano regalate dagli acciugai (ancioè mercandin) itineranti i nostri mercati, le “Sonaj-e” provenivano dalle navi per la pesca delle acciughe e, praticando un foro nella parte apicale, si creava un tubo sonoro analogo a quello del corno di stambecco, solamente fatto a spirale. Quasi tutte le famiglie ne posseggono una in casa, anche conchiglie centenarie. Mi venne spiegato che questo strumento era utilizzato per simboleggiare il frastuono che facevano i Giudei mentre il Cristo saliva il Golgota trascinando la croce. Quindi, un altro strumento legato all’uso nella” Settimana Santa”. Questa tradizione è diffusa in tutta Italia.
Raganelle (Cantarana, Tric-Trac): costruita in un legno locale che si trovasse sul posto senza problemi di difficile reperibilità (castagno, noce, frassino, etc.) da qualche “nonno” esperto in falegnameria, si presenta come una ruota dentata montata su di un manico, la quale, tramite rotazione, fa risuonare una o più lamelle di legno fissate su di una cornice. Il suono che ne deriva somiglia vagamente a quello di una raganella, da qui il nome “Cantarana”. Ne esistono esemplari di tutte le misure, da piccolissime a enormi, quest’ultime venivano addirittura issate sul campanile a sostituire le campane “legate”. E’ uno strumento usato in tutto il mondo, particolare l’uso durante la funzione della messa in sostituzione della campanella. Anche questo è uno strumento della “Settimana Santa”.
Batacchio (Martlët): costruito in legno duro, è composto da un martello di legno mobile, montato su di un manico con un perno che lo fa oscillare tra due superfici di battuta percussiva. Scuotendo lo strumento, il suono che se ne ricava è molto acuto e penetrante, veniva usato in processione o in qualche chiesetta di montagna che non poteva permettersi l’acquisto di campane per richiamare i fedeli alla messa.
Asse sonora (Tenëbbra): costruita in legno e metallo, somiglia ad un tagliere per salumi. Si teneva per il manico e, tramite le due “maniglie” metalliche inchiodate sulle superfici dell’asse, oscillando si produceva un suono percussivo dal volume molto elevato. Anche la “Tenëbbra” era usata durante la Settimana Santa per produrre frastuono.
Ossa di mucca (Tachenettès): semplici ossa di bovino (costine), venivano opportunamente ripulite da carne e cartilagini rimaste “immergendole” in un formicaio. Le formiche, oltre a svolgere un attento lavoro di ripulitura sia all’esterno che all’interno (midollo), tramite una loro secrezione “vetrificavano” l’osso, rendendolo cavo e durissimo. Si tengono con il palmo della mano e, mentre una costina viene mantenuta fissa e serrata tra le dita, l’altra oscilla e percuote ritmicamente tramite il movimento del polso. Il suono ottenuto ricorda vagamente quello delle nacchere. Possono anche essere costruite in legno duro, in questo caso hanno la forma di due assicelle. Un virtuoso di questo strumento era il sig. Severeun Chillod, di Aymavilles (AO), suonatore di fisarmonica e “Tachenettès”.
“Ressia” o Saracco: la “Ressia”, ovvero la sega di tipo saracco, può venire usata come strumento sfregato da un archetto. Tenendo la “Ressia” stretta tra le gambe dalla parte del manico, torcendo la lama in maniera opportuna e sfregando un archetto da contrabbasso sulla parte non dentata, si producono vere e proprie melodie. L’abilità del suonatore darà la perfetta intonazione e modulazione allo strumento, ricordiamo difatti il mitico “Pierin d’la Ressia” che si esibiva a Bajo Dora accompagnato da una fisarmonica. Questo particolare strumento è diffuso in tutto il mondo, con virtuosi di eccellenza.
“Tascon, Flé o Fleyé”: in italiano, “correggiato”. Era lo strumento tipico per la battitura del grano, composto da due bastoni legati tra loro con una correggia (striscia) di cuoio. I contadini, durante la battitura, si davano un ritmo particolare per eseguire il lavoro e quindi, negli anni ’60, due fratelli artigiani valdostani ne fecero una versione sonora mettendo due risuonatori cavi di legno alle estremità del bastone. Si dice anche che il movimento della “còte” della falce richiami l’esecuzione percussiva del “fleyé”, sicuramente è uno strumento dalla radice contadina conclamata.
Tromba di corteccia (Trombët-ta, Piva): ecco il primo strumento “effimero” vero e proprio. Si costruisce con la corteccia del frassino, castagno, gelso, salice, etc. Si pratica un taglio a spirale sul pollone e si scortica la pianta cercando di ricavare un “nastro” di corteccia che sarà poi avvolto a mo’ di cartoccio e fissato con un chiodino. Ottenuto così un tubo sonoro, si potrà soffiare nell’estremità più piccola come una tromba, ottenendo un suono modulabile. Qualcuno riesce persino a collocare un ancia semplice costruita con la canna, a guisa di clarinetto. Questa variante viene chiamata “piva”. Lo strumento può durare un paio di settimane, poi la corteccia si asciuga e non suona più. Può essere allungata la vita della “tromba” immergendola in acqua e mantenendola bagnata.
Zufoli (Subiët, Pifèr, Sigolòt): costruiti con rametti di frassino, sorbo o comunque con un legno elastico che non presenti troppi nodi sulla corteccia. In primavera la corteccia non ha ancora aderenza al fusto e quindi, con una certa abilità, si possono ottenere (con l’aiuto di un coltellino) piccoli tubi sfilando il legno del rametto, con molta attenzione. La difficoltà maggiore era nell’ottenere la “zeppa”e il “labium”, indispensabili per far suonare lo zufolo. Si costruivano flauti a “coulisse”, semplici fischietti o anche strumenti con fori da chiudere con le dita, capaci di qualche melodia. Anche il sambuco era un’ottima pianta per costruire flauti, nella mia ricerca ho ritrovato un esemplare di flauto a sei fori in sambuco (ormai centenario!) appartenuto ad un pastore e in tonalità (approssimativa) di La. Altri flauti, di tipo traverso, potevano essere costruiti in canna: molti pifferai del Carnevale di Ivrea iniziavano l’apprendistato su questo tipo di strumento, decisamente più economico e reperibile dell’impegnativo “piffero” in bosso.
Canna percossa (S-ciapèt): una canna palustre (magari recuperata dall’orto come sostegno per la pianta dei pomodori!) tagliata per lungo in due parti diseguali: una parte deve essere più pesante per poter creare la pulsazione ritmica. Tenendo la canna per il fondo non tagliato e percuotendolo con l’altra mano, si otterrà come un suono di frusta. Questo strumento è conosciuto in tutta l’area mediterranea, in Catalunya prende il nome di “Caña escardada”.
“Ramassa”: la “Ramassa” o scopa era uno strumento a sfregamento, composto da sottili legnetti dritti legati tra di loro, a mo’ di fascina. Sfregandoli tra le mani, si produceva un caratteristico suono come di scopa su selciato, usabile come accompagnamento al canto o come puro gioco. Si usava anche il manico della scopa di saggina con della cenere buttata sul tavolo: sfregando il manico sul pian di legno, l’attrito produceva un suono sordo e cupo, che scatenava il riso dei bimbi.
“Ciaflòira”: una semplice striscia di corteccia fresca, di pollone, stretta alle due estremità e tirata con forza verso l’esterno. Produrrà un suono simile ad una frustata. Veniva usata dai “Coroj” (Personaggi del Carnevale di Loranzè Alto) per far largo tra la folla ai figuranti del corteo carnevalesco.
Zucchette sonore (Ravi, Suchët, Cossa): le “Ravi” erano piccole zucche del tipo “Cossa màta”, cioè non commestibili. Essiccate, veniva fatto loro un foro sul lato con un ferro incandescente, si svuotavano dai semi e si mettevano a bagno nel vino, perché la “rava” potesse acquisire robustezza e sonorità. Poi, con molta attenzione, si segava la zucchetta in due parti speculari che venivano rifinite con della carta vetro. Controllato che non passasse luce tra le due metà, si portava alla bocca lo strumento tenendolo con due dita e si “cantava” nell’apertura fatta con il ferro incandescente. Le membrane delle pareti vibravano e formavano il suono. Il risultato acustico era simile al “kazoo”, una sorta di ronzio modulato dalla voce. Esistevano gruppi organizzati di queste “Ravi” (famosi ad esempio quelli di Fubine, nell’Alessandrino) e, incredibilmente, vennero anche incisi dei dischi a 78 giri con questi particolari complessi organizzati di “Sonador ëd Ravi”!
Guscio di noce: con un guscio di noce, un fiammifero o uno stuzzicadenti e un elastico, si costruiva una sorta di risuonatore percussivo che imita il galoppo del cavallo!
“Cigale” o Cicala: un tondino ricavato da una canna palustre, un filo da pesca, un po’ di pergamena (o pelle) e un bastoncino assemblati nella giusta maniera: questo strumentino riproduceva il suono delle cicale e dei grilli nei prati estivi, semplicemente facendolo ruotare sopra la testa.
“Torototela”: è questo il nome dato sia allo strumento che al suonatore, si usava come oggetto sonoro imitativo del violino, chiaramente in senso ironico e sbeffeggiatore. Si componeva di un arco di legno con una corda tesa ai vertici fatta di budello di maiale. La corda passava tra le due estremità dell’arco, poggiandosi sopra una vescica di maiale gonfiata, la quale fungeva da risuonatore. Tramite un archetto di crine di cavallo impeciato, rudimentale surrogato dell’archetto da violino, si sfregava la corda di budello producendo un suono basso e cavernoso, simile al grugnito del maiale. I “Torototela” erano una sorta di cantastorie che giravano spesso per i paesi o i mercati, chiedendo un piccolo obolo per le loro canzoni. Addirittura, rimane famoso l’episodio di Angelo Brofferio, celebre autore teatrale e musicale piemontese dell’800, che compra un costume da “Torototela” nel negozio Gambetti vicino a piazza Carignano a Torino e, sfidando la censura, si intrufola nel Teatro Regio e si esibisce dinnanzi al re Carlo Felice, ottenendo il plauso di quest’ultimo. “L’è arivà ‘l Torototela, l’è arivà ‘l Torototà!” era l’incipit che dava l’inizio alla loro esibizione.
Cucchiai, pentole, mestoli, tazze, bottiglie: qualunque oggetto poteva essere percosso, soffiato, sfregato per produrre suono o vibrazione.
Sicuramente, qualche strumento o oggetto sarà stato dimenticato, ci sarà qualcuno che dirà: “Sì, ma non hai parlato di…!”. E’ chiaro che, in un’indagine complessa e vasta come quella sul mondo popolare non si finisce mai di imparare. La genialità, la fantasia e la voglia di sopravvivere al di sopra delle mestizie quotidiane era quello che i nostri avi ci hanno voluto trasmettere. Prendiamo coscienza del grande valore culturale e umano lasciatoci in eredità e cerchiamo almeno di non perdere la voglia di fare, di costruire e di sperimentare in questo nostro mondo odierno fatto di pre-cotto, pre-ordinato e pre-digerito. E avevano così pochi materiali su cui potevano contare! Quanta fantasia espressa…
Rinaldo DORO – Centro Etnologico Canavesano (C.E.C.) 8 gennaio 2016